L'importante è che la morte ci colga vivi (Marcello Marchesi)

"L'importante è che la morte ci colga vivi" (Marcello Marchesi)

giovedì 2 maggio 2013

L'ECCELLENZA VOLA VIA, L'UNIVERSITA' ITALIANA E' SOLO BARONIA

Tratteggiamo un esemplare profilo di storia italiana - cervelli in fuga - chiusi dalla solita solfa dei raccomandati. Il primo articolo è di attualità di queste ore, un trapianto di trachea costruita con plastica e staminali del paziente. Il secondo una intervista che racchiude tutti i mali dell'Università nazionale, di cui la contro-riforma Gelmini è l'ultima puntata pro-baronie.

             Per la prima volta una trachea 'bioartificiale',
realizzata con le cellule del ricevente, e' stata trapiantata in una bambina di due anni e mezzo. A effettuare l'operazione presso il Children's Hospital of Illinois, la sesta di questo genere ma la prima su un soggetto cosi' piccolo, e' stato l'italiano Paolo Macchiarini, l'inventore della tecnica La bimba, Hannah Warren, e' nata senza trachea, una condizione rarissima che e' fatale nel 99% dei casi. L'organo trapiantato, riferisce il New York Times, e' stato realizzato a partire da un tubo di materiale plastico immerso in una soluzione delle cellule staminali della piccola paziente. L'intervento, effettuato lo scorso nove aprile, e' durato circa nove ore, e la bimba sta bene a parte qualche piccola complicazione post operatoria: ''La bambina e' stata quasi sconcertata quando ha visto che non c'era piu' il tubo che aveva in bocca per respirare - afferma Macchiarini al quotidiano - e' stato molto bello''. Il chirurgo potrebbe iniziare un vero e proprio test clinico sulla tecnica, se l'ospedale dell'Illinois otterra' il via libera dall'Fda. Professore a contratto al Karolinska Institute di Stoccolma, Macchiarini ha ottenuto anche un contratto triennale all'ospedale di Careggi di Firenze. Dallo scorso ottobre e' oggetto di un'indagine della magistratura fiorentina per le accuse di alcuni pazienti di aver suggerito ricoveri in cliniche private o straniere invece che nella struttura pubblica.

                           3 agosto 2010 . L'Unità
L’altra settimana, dopo aver effettuato (primo al mondo) un doppio trapianto di trachea con cellule staminali all’ospedale di Careggi di Firenze, Macchiarini ha annunciato che il suo sì all’offerta di una cattedra universitaria del Karolinska Institutet di Stoccolma. Perché là ha trovato aperta quella porta che il mondo accademico italiano gli ha sempre fatto trovare sbarrata. Fin da quando, brillante ricercatore laureatosi a Pisa, se ne era dovuto andare prima negli Usa, poi in Inghilterra e infine a Barcellona. Da dove era tornato, dopo 18 anni, solo un paio d’anni fa e solo grazie all’intervento diretto di Enrico Rossi, ora presidente della Toscana e allora assessore regionale alla sanità.

Professore perché ha deciso di accettare l’offerta dell’università di Stoccolma?
«Perché a Firenze non si è concretizzato il progetto che avevamo concordato. Doveva esserci una chiamata per “chiara fama”. È per questo che avevo lasciato tutto per tornare in Italia. Se mi avessero detto che non era così, che c’erano dei concorsi forse non avrei fatto la stessa scelta. Dopo due anni non è successo niente e non posso più perdere tempo e permettermi di ritardare la ricerca e bloccare tutto quello che sto facendo sia a livello assistenziale che clinico».

Come considera la sua vicenda: un caso emblematico ma limite o l’esempio di una situazione costante nell’università italiana?
«Penso che sia una vicenda che si ripeta. Speriamo che ora con la legge Gelmini che le cose cambino».

Qual è, a suo avviso, il blocco che va spezzato?
«Serve un cambio generazionale. Non può essere che coloro che sono al potere degli atenei non capiscano quali siano le esigenze dei giovani».

Che servirebbe all’Italia?
«Un garante dell’educazione dei nostri figli. Noi cittadini paghiamo le tasse, dobbiamo pagare le strutture universitarie. I fondi di finanziamento dove cavolo vanno? Possibile che non possa essere utilizzato un sistema di valutazione universale?»

Il rettore dell’Università di Firenze, Alberto Tesi, però fa notare come le procedure per una cattedra vadano osservate anche per garantire trasparenza. Che risponde?
«Sono d’accordo. Dico solo che se due anni e mezzo fa mi avessero detto “guardi lei non può venire se non dopo aver fatto una serie di concorsi etc. etc...” ci avrei potuto pensare. Nonostante che io abbia già l’equipollenza europea, acquisita in tre paesi diversi, per essere ordinario. Teoricamente ho tutti i requisiti. E che mi avrebbero chiamato per “chiara fama” il preside della facoltà di medicina ( Gensini ndr) non l’ha detto solo a me, ma anche in riunioni, presenti pure vari esponenti politici, e pure pubblicamente davanti a decine di giornalisti. Il rettore ha ragione, fa benissimo a dire che servono i concorsi. Se me lo avessero detto allora probabilmente non sarei venuto».

Insomma se l’avesse saputo sarebbe rimasto a Barcellona?
«Certo che sarei rimasto a Barcellona. I tempi brurocratici dei concorsi sono immani. Per di più i concorsi sono bloccati. Se avessi saputo che la situazione a Firenze era così, che c’erano ricercatori in attesa, mai e poi mai mi sarei permesso di avanzare rispetto a loro. Avrei detto: “prima loro e poi se c’è posto vengo io”. Ma questo non toglie valore al lavoro che abbiamo fatto sotto il profilo assistenziale perché al di là del ruolo accademico per un medico la soddisfazione più grande resta quella di poter salvare la vita delle persone».

L’altra questione sollevata è che all’università italiana mancano i soldi. A Firenze nel 2011 potrebbero mancare ben 50 milioni, un quinto di tutto il suo bilancio. I continui tagli la impoveriscono e, appunto, impediscono anche di fare concorsi. Così il turn-over è di fatto bloccato. Lei che ha conosciuto i sistemi universitari anche di altri paesi che opinione s’è fatto del nostro?
«Che sono almeno 10 anni più avanti anche rispetto alla stessa riforma approvata dal Senato. C’è massima trasparenza. Ci sono dei garanti indipendenti e autonomi. In Italia è una catastrofe, la meritocrazia, purtroppo, non è ancora italiana. Ci sono sì isole felici ma dovrebbe essere un’isola felice tutta l’Italia. Al nord, al sud, al centro, per i più poveri, per i figli di nessuno e per quelli dei baroni».

Cosa si augura?
«Che il sistema cambi. A me fa piacere che la riforma sia stata approvata col sostegno non solo della maggioranza. Se poi riusciremo, anche grazie alla mia piccola testimonianza, a scardinare all’interno di un feudo come è quello universitario, le regole sarei l’uomo più felice della terra».

Lei continuerà a operare all’ospedale Careggi di Firenze?
«Penso di sì, se naturalmente sarà possibile rimanere e convivere con l’università. Perché vorrei poter lavorare tranquillamente senza essere attaccato quotidianemente. Se reggo bene, se no valuterò se andarmene. Anche se andando via finirei per dare ragione a coloro che fanno dell’Italia un paese corrotto»

A Firenze, dal punto di vista delle strutture, come s’è trovato?
«A Careggi lavoro solo da circa cinque mesi eppure anche in questo poco tempo abbiamo fatto cose fantastiche di cui i due trapianti sono solo la punta dell’iceberg. Fra un po’ usciremo con altri interventi unici al mondo. Perché il bello dell’Italia, nonostante tutto, è che è un paese di divini creatori ed è questo che mi fa arrabbiare più di tutto. Che nonostante i suoi geni poi ci sia questo malore che avvolge il Paese e non lo dico da professore, ma da cittadino. Le posso fare un esempio che non c’entra nulla con la mia storia?».

Prego.
«Il Vaticano ha attaccato il via libera Usa ai test sull’uomo con cellule staminali embrionali. Capisco le questioni di fede sull’embrione, ma qui si tratta di salvare delle vite umane con la ricerca. Perché nessuno in Italia ha alzato la voce?».

Che consiglio darebbe a un giovane ricercatore italiano?
Ma per un giovane è meglio impegnarsi nel lavoro e nello studio o nel costruire relazioni con chi ha potere?
«Purtroppo in Italia se uno non ha relazioni finisce nel dimanticatoio. Però non è giusto. Con me a Firenze lavorano persone con età media di 30 anni. E il nostro lavoro dovrebbe essere anche quello di poter trasmettere ai più giovani quello che abbiamo imparato. Invece ..."

1 commento:

  1. MERITOCRAZIA E CLIENTELISMO di Elena Dobici

    I docenti a contratto rappresentano gli ultimi fra gli ultimi nell’ambito del mondo accademico, eppure essi svolgono le stesse attività dei docenti di ruolo: lezioni, assistenza, esami, funzioni di relatore, etc. Il loro compenso è irrisorio, eroso dalle imposte e corrisposto dopo un anno o più dalla fine dell’attività prevista dal contratto; il contrattista, quindi, deve vivere svolgendo un altro lavoro, spesso totalmente inappropriato, e da un anno all’altro può facilmente non vedere rinnovato il proprio incarico. E’ questo il mio caso: dal 2009 al 2013 ho ottenuto incarichi come docente a contratto presso l’Università della Tuscia di Viterbo per Teoria del Commercio Internazionale, Politica Economica, Economia Politica, ottenendo la stima e l’approvazione dei docenti che mi hanno conosciuta e, soprattutto, degli studenti. Nei primi anni ho ottenuto tre contratti contemporaneamente, ma lo scorso anno, nonostante l’apertura di due nuove facoltà nel mio dipartimento, mi è stato abolito l’insegnamento di Teoria del Commercio, nonostante il successo ottenuto presso gli studenti e l’ottima valutazione da parte di questi ultimi, mentre per il prossimo anno accademico non mi è stato assegnato nulla. Le motivazioni? Mancanza di fondi e di pubblicazioni, le stesse pubblicazioni che nessuno mi ha dato l’opportunità di fare, ma che possiede nel curriculum chi ha ottenuto il contratto al mio posto. Nonostante il compenso sia diminuito notevolmente, i concorrenti sono aumentati, in quanto le docenze a contratto costituiscono un trampolino di lancio per aspirare ad un ruolo stabile, poiché l’assegnazione di tali incarichi conferisce prestigio al curriculum. Ero idonea quando avevo poca esperienza, ora che la mia formazione è migliore, non lo sono più.
    Il mio nome è Elena Dobici e sono nata a Roma il 19/09/1962. Mi iscrissi all’università a 31 anni, presso la facoltà di “Economia e Commercio” dell’Università “La Sapienza” di Roma. Ero una studentessa-lavoratrice come assistente domiciliare ai disabili, mi sono laureata con 110 e lode nel settore dell’economia matematica ed ho conseguito il titolo di Dottore di Ricerca.
    Il mio relatore, Prof. Claudio De Vincenti, da una parte mi seguiva nella stesura di tre articoli per le pubblicazioni (su argomenti consigliati dal medesimo), mentre dall’altra tentava di dissuadermi dal perseguire l’obiettivo della carriera accademica con il pretesto della mancanza di fondi. Avendo compreso un chiaro disinteresse per l’argomento al quale stavo lavorando, feci presente a costui la mia disponibilità a cambiare argomento di studio, se ciò fosse stato necessario, ottenendo come risposta un chiaro invito a desistere dall’obiettivo di ottenere un assegno di ricerca o un posto da ricercatore, in quanto la mia età, 47 anni, era considerata proibitiva in tale ambito. Nei concorsi pubblici sono stati aboliti i limiti di età e nei bandi per l’assegnazione degli assegni di ricerca non viene menzionata una età massima, ma io sono stata discriminata per l’età, nonostante le università siano piene di ricercatori e docenti ben più anziani. Sono stata formata da docenti estremamente validi e conosciuti nel mondo per i loro lavori: Claudio De Vincenti, Nicola Acocella, Giuseppe Ciccarone, Galeazzo Impicciatore, Maurizio Franzini, Fabio Spizzichino e sono stata apprezzata da costoro finché studentessa, ma poi?
    Se avessi avuto il cognome di qualcuno o fossi legata in qualche modo a qualche dinastia, a quest’ora avrei pubblicato qualcosa o avrei avuto un incarico stabile? Dal 1993 al 2013 sono passati venti anni, anni buttati al vento, perché nella mia vita non è cambiato assolutamente niente: continuo a lavorare come assistente ai disabili, ambito nel quale la laurea, il dottorato di ricerca e l’esperienza della docenza, non servono a nulla.

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